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Per Aspera Ad Veritatem n.6
Criminalità e istituzioni nelle società multiculturali

Francesco SIDOTI




Dovendo parlare della possibile conflittualità che l'immigrato può portare nella società ospitante, è necessario non dimenticare due aspetti.
Il primo è connesso con la volontà di migliorare, di fare, di costruire che spinge molti a partire verso luoghi più fortunati, nonché al contributo che quasi sempre l'immigrato può dare al miglioramento di tale società (1) . Il secondo è che l'immigrazione è un fenomeno inevitabile, ma può avvenire in molti modi. Sono possibili un'ampia varietà di opzioni e di concezioni nettamente contrapposte: da quella che porta all'estremo le idee francescane dell'accoglienza con le braccia spalancate, all'altra che estremizza le idee xenofobe e razziste.
L'esistenza di punti di vista così differenti conferma che il futuro ci riserva una società multirazziale e multiculturale che può però essere realizzata in vario modo. Inoltre, è importante considerare che i problemi di emarginazione, di devianza di criminalità con i quali l'Italia ha cominciato a confrontarsi sono di modesta dimensione rispetto a quelli ipotizzabili nel futuro. Secondo alcuni studiosi che guardano alle esperienze dell'immigrazione maghrebina in Francia e di quella caraibica e africana in Gran Bretagna (per gli Stati Uniti il discorso è diverso), le difficoltà più serie dell'iterazione si accumulano, infatti, nel tempo ed esplodono in maniera acuta con la seconda generazione di immigrati. Le statistiche della polizia, all'inizio degli anni novanta, stimano la sottoclasse di colore in un decimo soltanto della popolazione della Grande Londra, responsabile però di circa due terzi dei reati contro la persona e la proprietà.
In Italia dunque si è all'inizio di un percorso che diventerà sempre più intricato, e lungo il quale non si troveranno modelli precostituiti da copiare, ma esperienze diverse, che mostrano il fianco a perplessità e a correzioni.
Un caso del tutto peculiare è la Germania la quale ha affrontato la questione con metodologie irripetibili in Italia. Il modello della integrazione a tempo, integration auf Zeit, è stato coniugato con l'ideologia profondamente tedesca del Blut und Boden: quella teoria della cittadinanza per legami di sangue (indipendentemente dal luogo di nascita), che fu anche una parola chiave del nazionalismo più oltranzista e corrispondente a una teoria che trova un parallelo con poche altre concezioni della cittadinanza.
Secondo alcuni si può citare in proposito per analogie la concezione ebraica (per la quale si è ebrei in base a legami di sangue, indipendentemente dal luogo di nascita).
Anche se è stata in qualche modo additata come un modello, ad esempio da Giscard d'Estaing, che ha auspicato la prevalenza dello jus sanguinis sullo jus loci, l'esperienza tedesca è fortemente connessa con una serie di caratteristiche particolari (accanto all'ideologia del Blut und Boden, soprattutto la formierte Gesellschaf erhardiana), e non sembra facilmente esportabile negli altri Paesi. In particolare, in Italia, notoriamente molto diversa dalla Germania dove del resto, dopo il rogo di Solingen si registra una riflessione che lungi dall'essere conclusa, si svolge in parallelo con la revisione critica coinvolgente tutta l'Europa (2) . La svolta polemica di settori della socialdemocrazia tedesca contro i Wolgadeutschen è assai significativa delle tendenze xenofobe in atto anche presso gruppi politici precedentemente immuni.
Dal punto di vista legislativo e dell'applicazione concreta, la legislazione italiana di polizia sul trattamento dell'immigrato ha mostrato varie incertezze e difficoltà. Un esempio illuminante è la legge del 30 novembre 1986, mossa da intenti assai illuminati e generosi (ma secondo alcuni velleitari). Per quanto riguardava la criminalità, la legge si preoccupava in modo speciale della protezione dell'immigrato nei confronti dei «datori di lavoro più inclini alla violazione di norme morali e giuridiche» (3) , sottovalutando in una certa ottica le conseguenze sul piano dell'ordine pubblico di ondate migratorie che avrebbero posto all'Italia le stesse esigenze di contrasto già avvertite negli altri Paesi europei (4) . In generale, da più parti è stato osservato un «difetto di coordinamento di chiarezza» (5) , che ha spinto a revisioni molto discusse per la loro idoneità e opportunità. Un aspetto significativo delle incertezze italiane è stato il commento del Ministro Coronas nel gennaio 1996, di rientro da una riunione dell'Unione Europea dedicata ai problemi della sicurezza comunitaria, con riferimenti specifici ai problemi dell'immigrazione clandestina. Il Ministro aveva dovuto affrontare nella circostanza le osservazioni dei Rappresentanti degli altri Paesi sulla facile permeabilità delle nostre frontiere. Al ritorno in Italia il Ministro metteva in rilievo davanti all'opinione pubblica una differenza stridente: l'ingresso clandestino non esiste come reato in Italia, a differenza di quanto avviene in Francia e Germania.
La stessa particolarità è stata sottolineata da Leopoldo Elia, che ha rilevato quanto la nostra legislazione sia sicuramente più mite e più indulgente di quella francese e di quella tedesca.


Un confronto con la trasformazione della situazione francese è significativo in quanto a lungo la Francia ha rappresentato per osservatori di diversa estrazione un modello da imitare sotto molti profili, assolutamente diverso dal modello americano proprio in ragione delle sue "superiori capacità" di integrazione e di assimilazione (6) .
Già negli anni venti la Francia era un Paese con una quota di stranieri che contava oltre il 6 per cento della popolazione (quasi la stessa percentuale di oggi); e si può sostenere che il melting pot in Francia ha funzionato con ottimi risultati, malgrado tensioni ed episodi di intolleranza si siano manifestati a vario livello: l'integrazione di spagnoli, armeni, portoghesi, italiani, polacchi, è avvenuta in maniera da costituire un esempio straordinario (7) . Innanzitutto, i risultati hanno quindi deposto in favore del modello francese, che è stato guardato spesso con invidia dagli operatori dei Paesi limitrofi.
In Italia, sia i moderati che i progressisti hanno dato grande importanza a quanto avveniva oltralpe: i moderati guardavano con ammirazione le grandi tradizioni di efficienza della polizia e della giustizia francesi, mentre i progressisti avevano analogo atteggiamento per le capacità degli apparati assistenziali francesi di intervenire attivamente nelle aree sociali di bisogno e di disagio.
Il modello francese è stato visto come fondato su un insieme di repressione e prevenzione portate entrambe ad un alto livello di efficienza amministrativa. A differenza di altri modelli (ad esempio, quello americano, basato sull'uso prioritario degli strumenti della repressione), il modello francese è stato caratterizzato dall'uso massiccio di interventi ispirati ad una logica sia di repressione che di prevenzione dei fenomeni criminali. Queste due tenaglie dell'intervento pubblico hanno potuto funzionare egregiamente grazie alla particolare forza e stabilità delle strutture istituzionali, che non sono state intaccate, ma rafforzate dai frequenti cambiamenti politici.
Pur in mezzo a tensioni spesso incandescenti si è costituita un'ossatura speciale della società francese, vertebrata da apparati pubblici che notoriamente hanno svolto un'azione di supplenza e di direzione del Paese anche quando la classe politica si rivelava impotente. Questo modello di gestione dell'ordine pubblico è stato sottoposto a critiche e discussioni nel corso degli anni ottanta proprio in riferimento a quello che veniva precedentemente presentato come il suo maggiore successo: l'integrazione degli immigrati.
Il primo segnale importante fu nel dicembre del 1983 la manifestazione dei centomila a Parigi, cominciata come reazione spontanea (a Marsiglia e a Lione) ad alcuni avvenimenti in cui erano rimasti vittime dei giovani immigrati di seconda generazione, di origine maghrebina. I promotori della manifestazione furono ricevuti all'Eliseo dal presidente Mitterrand, che promosse una serie di misure in favore degli immigrati. I risultati della politica del Governo francese non sono stati però complessivamente soddisfacenti: dopo una serie di crescenti difficoltà, e dopo, nel 1989, una serie di rivolte, da Vaulx-en-Evelin a Mantes-la-Jolie, la crisi delle periferie è diventata un argomento ricorrente, e si è parlato spesso anche di "mafiasizzazione" (8) in riferimento a quartieri del Nord di Marsiglia o a comuni dell'Est di Lione.
Secondo un sondaggio realizzato dal Sofres, una larga parte del milione di bours che vive in Francia è perfettamente integrato nella società francese, ma esiste nelle periferie un 20% di immigrati, refrattari all'integrazione, inclini a cercare rifugio nel fondamentalismo islamico (si stima che i musulmani in Francia siano circa cinque milioni), esposti al rischio di essere coinvolti in differenti episodi di criminalità, a cominciare dal traffico di droga. In riferimento a tali problematiche si è parlato di una emergente «logique mafieuse» negli strati popolari più disperati (9) .
La vittoria delle forze di sinistra nel 1981 era stata preceduta da un conclamato progetto di impegnarsi in particolare nelle periferie. Ancora nel 1992, appena arrivato alla presidenza del consiglio, il primo ministro Pierre Bèrègovoy piazzava l'insicurezza urbana tra i primi tre flagelli che demoralizzavano la società francese, affermando che le difficoltà delle periferie erano una priorità principale, che non sarebbe stata affrontata soltanto aumentando il numero degli educatori. Con la preminenza delle sinistre era nata una nuova politica della sicurezza ispirata ai principi generali riassunti nello slogan changer la vie, ma i risultati di questa nuova politica non vengono percepiti come un modello di integrazione neanche dai suoi stessi promotori.
Un altro modello che non può più essere citato come esempio è quello degli Stati Uniti, dove il celebre melting pot è diventato secondo alcuni una salad bowl: la mescolanza delle etnie non avviene più nella pentola dove le culture si fondono, ma in un'insalatiera dove ogni ingrediente rimane separato e distinto rispetto agli altri.
Questo cambiamento qualitativo è connesso ad un grande cambiamento quantitativo: dal 1977 l'ingresso di stranieri negli Stati Uniti è aumentato a livelli da esodo biblico, eccezionali anche rispetto a tutta la storia precedente: milioni di immigrati hanno cambiato sostanzialmente il mercato del lavoro americano.
In particolare si è verificata un'accesa concorrenza nei segmenti tradizionali del mercato, specie in quelli a bassa remunerazione, dove prima era facile trovare collocazione.
Negli ultimi dieci anni negli Stati Uniti un posto di lavoro ogni tre nuovi posti è stato occupato da una donna; e un posto ogni otto nuovi posti è stato occupato da un immigrato. Inoltre, i cambiamenti tecnologici hanno alterato profondamente le richieste del mondo produttivo: negli anni ottanta gli afroamericani che bussavano alle porte del mercato del lavoro possedevano in genere un tipo di istruzione non adatto alla domanda nei settori nuovi, caratterizzati dalla richiesta di alti livelli di formazione.
Questa situazione ha indotto alcuni studiosi ad affermare che l'immigrazione ha cambiato profondamente la struttura della società americana, portando il Terzo Mondo dentro la società più ricca e più potente della terra: «Nelle viscere della nostra società, nel Terzo Mondo dei nostri ghetti si aggira un'intera generazione di bambini condannati quanto i figli della strada di Rio de Janeiro» (10) .
Nel 1991 è stato un record il numero di immigrati diventati legalmente residenti negli Stati Uniti: 1.800.000; più di un milione erano già residenti illegalmente negli Stati Uniti, e hanno acquisito il nuovo status grazie all'amnistia dell'Immigration Reform and Control Act del 1986. Si discute molto intorno alla possibilità che l'immigrazione abbia avuto conseguenze rilevanti sul piano dell'ordine pubblico. Di fatto, milioni di cittadini hanno avuto guai seri con la giustizia. Al 31 dicembre 1994 si contano negli Stati Uniti 2,8 milioni di persone in libertà vigilata, 671.000 libere sulla parola, 1.400.000 detenute nelle prigioni federali, statali, locali. Una percentuale altissima, che trova paragone soltanto con quanto avveniva precedentemente nell'Unione Sovietica e nel Sudafrica.
Nonostante il più alto numero di incarcerazioni nel mondo, gli Stati Uniti soffrono il più alto livello di criminalità nel mondo.
La specificità della criminalità dal punto di vista della composizione etnica è nota, e basterà sottolineare alcuni punti. Nel censimento del 1990 quasi il trenta per cento della popolazione statunitense si è dichiarato non bianco o ispanico, ma questa popolazione viene ritenuta responsabile di una percentuale molto più alta di criminalità: soltanto gli afroamericani sono incolpati di circa la metà dei crimini più gravi. Alle altre minoranze etniche vengono addebitate le quote più importanti della predatory criminality: nei famosi disordini di Los Angeles metà dei saccheggiatori non erano afroamericani, ma latini, e le vittime erano in maggioranza di origine asiatica. Il modello statunitense di società multiculturale è così sottoposto all'insidia di sfide crescenti.
Paradossalmente, una parte dei problemi del razzismo americano deriva dalle vittorie del movimento antirazzista.
Al tempo delle celebri marce di protesta dirette da Martin Luther King, esistevano ancora forme arcaiche di discriminazione, ed un lungo cammino è stato compiuto, specie negli Stati del Sud, dove gli afroamericani erano concentrati (in alcune zone costituivano il 40 per cento della popolazione), e dove ancora fino agli anni Cinquanta il sistema di segregazione Jim Crow rimaneva virtualmente inalterato.
Per sfuggire ad una situazione di oppressione razziale ancora accentuata, gli afroamericani del Sud cominciarono ad emigrare nelle aree urbane del Nord; in proporzioni significative dopo la prima guerra mondiale, e soprattutto tra il 1940 e il 1960. Lasciavano il Sud rurale per il Nord industriale, con la speranza di trovare lavoro nelle fabbriche e nei settori connessi: fino al 1960, quelli che poi sono diventati i ghetti delle città del Nord, erano un'oasi di speranza per chi fuggiva dal sistema di dura segregazione razziale esistente nel Sud (11) .
Il successo del movimento per i diritti civili e l'affermarsi del Welfare State cambiarono radicalmente la situazione degli afroamericani, introducendo effetti imprevisti e alla lunga secondo alcuni controproducenti. Ad esempio, il primo effetto delle conquiste del movimento dei diritti civili fu il rafforzamento di una classe media nera, e la penetrazione nelle macchine politiche locali (ci sono stati sindaci neri nelle maggiori città americane, da Washington a Chicago, da Boston ad Atlanta); ma non fu previsto che la prima tendenza di questa nuova classe media sarebbe stata la fuga dai ghetti per andare ad abitare in quartieri migliori. I ghetti diventarono progressivamente aree in cui rimanevano vecchi, donne, bambini, ragazzi, e pochi adulti, spesso disoccupati, sfiduciati, disperati: zone condannate ad una selezione alla rovescia, progressivamente abbandonate dagli elementi migliori, che vedevano nell'uscita dal ghetto il segno di una promozione sociale. Insomma, l'esperienza statunitense e le politiche di Welfare non costituiscono un modello. Anzi, è giocoforza notare che proprio la società americana, nata come la società multietnica, ha registrato sotto questo profilo la crescita preoccupante di un forte estremismo politico intorno ai temi del risentimento razziale, in maniera simile a quanto è avvenuto in Francia, anche se in modi e tempi del tutto diversi. La straordinaria fortuna della Proposition 187 (che vuole negare agli immigrati clandestini la possibilità di fruire dei pubblici servizi, inclusa l'istruzione) in California, nelle elezioni del 1994, è stata interpretata come un segno imponente di una minacciosa isteria di massa sul tema dell'immigrazione (12) .
In questo panorama generale, la situazione italiana è specifica per più di un motivo. Innanzitutto è certamente vero che una grande parte dell'allarme sociale intorno all'emigrazione è superiore alle reali dimensioni del fenomeno; da una puntuale ricerca in proposito (13) emerge che in larghissima misura gli immigrati sono coinvolti in episodi relativi a reati non violenti e non pericolosi; anche l'alto numero di stranieri presenti nelle Questure e nelle carceri testimonia la visibilità; ad esempio, c'è una grossa differenza tra il numero degli indagati e il numero di quelli che effettivamente poi vengono condannati.
L'allarme sociale spesso è eccessivo a fuori luogo; illuminante il caso del cosiddetto «emendamento anti harem», discusso per giorni e giorni dai legislatori, rivolto ad evitare che al seguito di un uomo potessero entrare surrettiziamente molte mogli. In proposito è stato osservato che la poligamia «anche dove è lecita è molto rara» (14) : in un Paese come il Marocco, già nel 1956 la percentuale di questi matrimoni era molto ridotta (5,6), e in seguito è diminuita ulteriormente, sino a scendere al di sotto del 3 per cento.
Ciò detto, occorre sottolineare la vistosa crescita di fenomeni che col tempo minacciano di diventare molto pericolosi. Ad esempio, la trentacinquesima relazione dei servizi di sicurezza, trasmessa a settembre in Parlamento, sottolineava i rischi connessi con la presenza con l'integralismo islamico, che notoriamente ha creato serie difficoltà in società molto più attrezzate e preparate della nostra. Ma altri fenomeni sono già spaventosamente seri e inquietanti, come quelli relativi alle centinaia di extracomunitari minorenni, che in Italia sono stati comprati, venduti, affittati, inseriti nei circuiti criminali più squallidi, dall'accattonaggio alla prostituzione, allo spaccio di stupefacenti.
A volte è stato contestato il reato di riduzione in schiavitù, previsto dall'articolo 600 del codice penale, ma con scarsi risultati, perché si tratta di una delle più vecchie fattispecie di reato, che dovrebbe essere rivista e adeguata ai nuovi tempi.


La letteratura sui temi dell'immigrazione si confonde con la letteratura sulle sfide complessive che i Paesi occidentali affronteranno negli anni a venire. In proposito, una metafora affascinante, ma pessimistica, ha offerto una sintesi fondata sulla comparazione storica. Davanti ai «nuovi barbari» sono possibili due strategie: quella di Roma o quella di Bisanzio, la prima rivolta ad un tentativo di assimilazione, che consentirebbe soltanto una sopravvivenza della propria cultura, la seconda ad un contenimento di tipo militare, che consentirebbe soltanto di ritardare nel tempo il crollo del sistema. Tutte e due le strategie sono comunque perdenti: declino e sconfitta sarebbero inevitabili perché dipendono dal disastroso calo demografico occidentale (15) .
Anche in una prospettiva di carattere epocale il problema dell'immigrazione deve essere considerato come un aspetto della straordinaria mutazione culturale che è stata riassunta con il termine «terza ondata tecnologica».
Nei prossimi decenni una marea di innovazioni economiche, produttive, scientifiche travolgerà una gran parte delle attuali strutture organizzative; l'immigrazione è una componente decisiva di una trasformazione che potrebbe avvenire o all'insegna della distruzione caotica dell'ordine preesistente o all'insegna dei tentativi di trovare una composizione costruttiva e creativa.
Su molte questioni non sono ancora visibili scorciatoie o stratagemmi. Per quanto riguarda l'immigrazione rimangono validi alcuni concetti di carattere generale emersi in riferimento a temi limitrofi, come ad esempio quello della devianza minorile: il tentativo dell'integrazione è connesso con il coordinamento delle burocrazie, la presenza di aree socialmente organizzate, l'efficienza dei servizi pubblici, la preparazione del personale, l'adeguata preparazione dell'impegno finanziario (16) .
Su un piano di carattere generale, inoltre è ancora di stringente attualità quanto è stato affermato circa un secolo fa a proposito della prima società moderna multietnica e della criminalità degli immigrati. Thomas e Znaniecki misero in rilievo che il primo fattore per spiegare la criminalità degli immigrati era il funzionamento delle istituzioni, perché potevano grandemente agevolare oppure ostacolare l'integrazione sociale: «tutti quegli atteggiamenti i quali pongono l'individuo in condizione di condurre una vita normale sono direttamente o indirettamente il risultato di una lunga serie di influenze sociali… In altri termini, questi atteggiamenti sono istituzionali anziché spontanei» (17) . Le conclusioni di questi studi di carattere pionieristico sono confermate dalla storia di quei Paesi dove i processi di integrazione sono avvenuti in maniera soddisfacente: in Francia fino al 1968 i successi dell'assimilazione non sarebbero stati possibili senza il buon funzionamento dell'apparato istituzionale, e in particolare della scuola repubblicana (18) ; negli Stati Uniti soltanto negli anni Sessanta una vera e propria rivoluzione culturale (19) ha travolto quel «paradigma» (20) che resisteva dal periodo del New Deal e rappresentava la traduzione in America di quel che il secolo socialdemocratico era stato in Europa.
Con la crisi paradigmatica del modello del New Deal, le istituzioni statunitensi cambiano forma e contenuto. Secondo alcuni hanno addirittura contribuito a formare una cultura della segregazione (21) ; secondo altri, l'incapacità di fronteggiare il problema dell'immigrazione è all'origine di un estremismo che può minare le fondamenta delle società democratiche (22) .
I ritardi e le inadempienze istituzionali nella politica di assimilazione sono dovuti ad una più ampia e grave carenza nelle capacità di integrazione sociale: il tema dell'immigrazione pone in generale il tema della difficoltà della società contemporanea (sia di quella francese, sia di quella statunitense, sia di quella italiana) a trasformarsi e ad adeguarsi alla nuova sfida della società multirazziale e multiculturale (23) . In conclusione, mentre in molti Paesi l'inadeguatezza delle istituzioni favorisce la devianza, le istituzioni italiane rischiano di essere giudicate particolarmente inadeguate, dunque tali da favorire oggettivamente la crescita dei fenomeni di devianza (tra gli italiani come tra gli immigrati).
Da questo punto di vista, la questione dell'immigrazione è parte di una più ampia questione culturale e istituzionale.
L'integrazione degli immigrati è un segmento di quel dilemma istituzionale italiano (24) , che si trascina tortuoso e irrisolto da molti anni.
Esiste un problema globale dei flussi migratori e della internazionalizzazione delle attività illecite, ma esiste pure una specificità italiana, in termini di un'impreparazione e di un velleitarismo che oggi è sempre più stridente, in un contesto caratterizzato dal faticoso processo di formazione di una nuova struttura della sicurezza internazionale (dalla riforma della NATO all'allargamento di Europol). I Paesi alleati ed amici sono consapevoli delle nostre difficoltà, ma sono anche sempre meno accondiscendenti, come appunto hanno spiegato al Ministro Coronas ancora a gennaio 1996: non vedono l'ora che finisca questa ennesima eccezionalità italiana. Nel campo della sicurezza sono già stati fin troppi e troppo vistosi i motivi, dal terrorismo alla mafia, che minacciano di avvelenare i necessari rapporti di fiducia e di collaborazione con gli altri Paesi.


(1) Per alcune importanti riflessioni in proposito cfr. A. Langer, La scelta della convivenza, Edizioni e/o, Roma 1995; I. Eibl-Eibensfeldt, Par-delà nos differences, Flammarion, Paris 1979; S. J. Ungar, Fresh Blood, The New American Immigrants, Simon & Schuster, New York 1995.
(2) Per una prospettiva d'insieme cfr. U. Meloi, Migrazioni internazionali, povertà e degrado urbano: il caso italiano e le esperienze europee, in P. Guidicini - G. Pieretti, Le residualità come valore. Povertà urbane e dignità umana, Angeli, Milano 1993.
(3) M.G. Garofalo, I lavoratori immigrati: osservazioni sulla L. 30 dicembre 1986, n. 943, in «Riv. giur. lav.», 1988, p. 138.
(4) Cfr. G. Gennaro, I detenuti stranieri in Italia alla luce della normativa internazionale, Ministero di Grazia e Giustizia, Roma 1987.
(5) V. Caputi Jambrenghi, Contributo sui problemi giuridici attuali dell'immigrazione, in A. Dell'Atti (a cura di), La presenza straniera in Italia. Il caso della Puglia, Angeli, Milano 1990, p. 165.
(6) Cfr. Loic J. D. Wacquant, Pour en finir avec le mythe des citès-ghettos: les differences entre la France et les Etats-Unis, in «Les Annales de la Recherche Urbaine», 54 1992, pp. 220-30; M. Weir, Race and Urban Poverty, Comparing Europe and America, in «The Brookings Institution» Summer 1993, pp. 23-27; Loic J. D. Wacquant, Banlieus françaises et ghetto noir amèrican: de l'amalgame à la comparaison, in «French Politics and Society».
(7) L'immigrazione italiana in Francia cominciò nel 1860 e fu così massiccia da essere quantitativamente paragonabile a quella odierna dei magrebini: gli immigrati del 1931 superavano gli 800 mila ed erano circa un terzo di tutta l'immigrazione in Francia; cfr. P. Milza, Voyage en Italie, Plon, Paris 1993. Ma il confronto con gli Stati Uniti rimane comunque impressionante: per anni ci furono a New York più italiani che a Roma, 600.000. Del resto c'erano anche più irlandesi che a Dublino o più ebrei che a Gerusalemme.
(8) Cfr. J. Dray, Rapport d'information sur la violence des jeunes dans les banlieus, n. 2832, Assemblèe Nationale, 25 juin 1992.
(9) Cfr. P. Braun-K. Lakrouf, Les enfants de la terreur. La jeunesse des banlieus aujourd'hui, Mercure de France, Paris 1993, p. 211.
(10) E. Luttwak, C'era una volta il sogno americano, Rizzoli, Milano 1993, p. 169. Per una rilettura del sogno americano con riferimento specifico al tema della società multiculturale, cfr. j. l. Hochschild, Facing up to the American Dream. Race, Class, and the Soul of the Nation, Princeton University Press, New York 1995; e per il rapporto specifico degli immigrati con il sogno americano, cfr. S. J. Mahler, American Dreaming. Immigrant Life on the Margins, Pringeton University Press, Princeton 1995.
(11) W.J Wilson, The Declining Significance of race, The University of Chicago Press, Chicago 1980; per un'attenzione specifica sul rapporto tra immigrazione e processi di de-industrializzazione cfr. J. Schinto, Huddle Fever, Living in the Immigrant City, Knopf, New York 1995.
(12) Per un'analisi impietosa delle difficoltà di conciliazione del credo egualitario con tentazioni razziste inconfessate, cfr. K. O'Reilly, Nixon's Piano. President and Racial Politics from Washington to Clinton, Free Press, New York 1995.
(13) G. Marotta, Immigrati: devianza e controllo sociale, Cedam, Padova 1995.
(14) Ires Piemonte (a cura di), Uguali e diversi: il mondo culturale, le reti di rapporti, i lavori degli immigrati non europei a Torino, Rosemberg e Sellier, Torino 1991, p. 5.
(15) C. Jean, Geopolitica, Laterza, Bari 1995, pp. 125-129. La fine degli imperi romani è stata riletta più volte come un caso paradigmatico per straordinarie riflessioni di carattere storico, Garzanti, Milano 1965.
(16) S. Segre, Strategie e metodi di prevenzione della delinquenza giovanile in Italia: una valutazione ragionata della loro efficienza, in «Marginalità e società», 29, 1995, pp. 123-152.
(17) W.I. Thomas - F. Znaniecki, Il contadino polacco in Europa e in America, Comunità, Milano 1968, II vol., p. 398.
(18) C. Wihtol de Wenden - A.M. Chartier, Ecole et intégration des immigrés, La Documentation Française, Paris 1992.
(19) W. Kaminer, It's All the Rage, Crime and Culture, Addison-Wesley, New York 1995; P. C. Roberts - L. M. Stratton, The New Color Line. How Quotas and Privilege Destroy Democracy, Regnery, New York 1995; C. Cohen, Naked Racial Preference, Madison Book, New York 1995.
(20) D. Osborne - T. Gaebler, Dirigere e governare. Una proposta per reinventare la pubblica amministrazione, il Mulino, Bologna 1995, pp. 388-389.
(21) D. S. Massey - N. A. Denton, America Apartheid Segregation and the Making of the Underglass, Harvard University Press 1993.
(22) Cfr. P. Weil, La France et ses ètrangers, Calmann-Lèvy, Paris 1995; D. T. Carter, The Politics of Rage. George Wallace, the Origins of the New Conservatism, and the Trasformation of American Politics, Simon & Schuster, New York 1995.
(23) Cfr. A. Touraine, Face à l'exclusion, in «Esprit», 169, p. 7-13.
(24) Per una più ampia trattazione di questi temi mi permetto di rinviare a F. Sidoti, Istituzioni e criminalità, Cedam, Padova 1996.

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